lunedì 23 febbraio 2015

ANNULLAMENTO DI UNA CARTELLA DI PAGAMENTO: POSSIBILITA' E MOTIVAZIONI di Victor Di Maria



La cartella di pagamento può essere oggetto di contestazione e quindi annullata, per intero o parzialmente, dal giudice tributario, in tutti i casi in cui sia affetta da nullità.  

Se la cartella è preceduta da accertamento i motivi per poterla impugnare sono circoscritti ai vizi propri della cartella in virtù dell`autonomia dei provvedimenti impugnabili. 

Normalmente uno dei principali motivi di impugnazione, in via pregiudiziale, in una cartella esattoriale, è il difetto di notifica

La legge, infatti, obbliga al notificatore di rispettare determinate procedure e formalità prima di consegnare la cartella di pagamento emessa dall`Agente della riscossione. 

Per voler fare un solo esempio, la notifica della cartella di pagamento eseguito per il tramite del servizio postale può determinare l`inesistenza giuridica della notifica. Oppure, l`illeggibilità della relata di avvenuta notificazione che sia priva di idonea sottoscrizione dell`Agente della riscossione.  

Altre motivazioni di impugnazione possono riguardare, per esempio, la violazione del principio del contraddittorio procedimentale che imporrebbe all`Agenzia delle entrate di convocare il contribuente per la comunicazione dell`esito dell`attività svolta, in epoca antecedente alla notifica della cartella di pagamento, ovvero anche la carenza di motivazione del`atto esecutivo.  

Sulla questione relativa alla carenza di motivazione occorre puntualizzare che, se da un lato è vero che la cartella di pagamento indica esclusivamente le somme iscritte a ruolo essendo la motivazione insita negli atti `presupposti`, dall'altro è altrettanto vero e pacifico che, nonostante l`approvazione dei nuovi modelli di cartella, gli atti impositivi continuano a mancare dei prospetti di calcolo degli interessi e di informazioni `adeguate` ad illustrare la pretesa tributaria o previdenziale.

Nel predisporre quindi un eventuale ricorso di opposizione alla cartella di pagamento bisogna ricordarsi di chiedere alla Commissione Tributaria Provinciale (giudice di primo grado):



  • l`inesistenza giuridica della notifica per posta della cartella di pagamento in virtù della palese violazione e falsa applicazione dell`art 26, d.p.r. n. 602/73; 
  • l`assenza della prova dell`avvenuta notifica della cartella di pagamento e dichiarare la nullità dell`atto per violazione e falsa applicazione dell`art 26, d.p.r. n. 602/73; 
  • l`illeggibilità della relata della cartella di pagamento priva di idonea sottoscrizione e della data di notifica; procedura di notifica effettuata in spregio al contenuto dell`art. 148 c.p.c. e dichiarare l` inesistenza della notificazione e conseguente nullità dell`atto esecutivo; 
  • il mancato rispetto dei termini di decadenza per la notifica della cartella e dichiarare la nullità dell`atto per violazione e falsa applicazione dell`art. 25 d.p.r. n. 602/73; 
  • l`omessa sottoscrizione della cartella da parte dell`Agente della riscossione e dichiarare nullo l`atto esecutivo per violazione e falsa applicazione dell`art. 6 del D.M. n. 321/99; 
  • la violazione del principio del contraddittorio che determina la violazione e falsa applicazione dell`art. 6, comma 5, l. n. 212/2000; 
  • la carenza di motivazione della cartella di pagamento e la omissione di una motivazione congrua ed esaustiva, in aperta violazione e falsa applicazione dell`art. 3 e 10, l. n. 212/2000; 
  • la grave mancata indicazione del calcolo degli interessi con richiesta di dichiarare la nullità dell`atto esecutivo per violazione e falsa applicazione dell`art. 7, l. n. 212/2000;
Per eventuali approfondimenti lo Studio Legale Tributario Associato DMS rimane a Vs. completa disposizione al seguente indirizzo email: victordimaria@gmail.com.

Dott. Victor Di Maria

mercoledì 18 febbraio 2015

Interdittiva, non sono necessari accertamenti penali definitivi sulla contiguità dell'impresa con le mafie



I principi sanciti nella sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato del 17 febbraio 2015.

La funzione dell’interdittiva esprime una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, affinché sia assicurata una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività mafiose. 

Se questa è la premessa funzionale - precisa la Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 17 febbraio 2015 - allora l’interdittiva non va per forza collegata ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell'impresa con le mafie e, quindi, del concreto condizionamento in atto. 

Con riferimento alla partecipazione al procedimento della parte, precisa inoltre il Collegio che, nel caso di specie, l’interdittiva quale misura cautelare assunta per fronteggiare il pericolo imminente o attuale dell’infiltrazione mafiosa nell’impresa attorea non può che esser disposta illico et immediate, per l’evidente ragione di correggere subito l’anomalia così riscontrata o temuta e per evitare manovre dilatorie o elusive che mantengano di fatto la soggezione o la contiguità dell’impresa al fenomeno mafioso. 

Da ciò discende l’inutilità, in generale e nel caso in esame, d’ogni formalità procedimentale a favore della parte, giacché, a parte talune ma non dirimenti imprecisioni, i dati di fatto non si sarebbero potuti modificare o, comunque, non più o meglio di quanto già dianzi chiarito dal Collegio. 

Equitalia non può negare l'accesso alle cartelle esattoriali



"Poiché la cartella esattoriale costituisce presupposto di procedure esecutive la richiesta di accesso ad essa è strumentale alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme dall’ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune, con la conseguenza che deve essere rilasciata, in copia, dalla società concessionaria al contribuente che abbia proposto, o voglia proporre ricorso, avverso atti esecutivi iniziati nei suoi confronti”.

“Non è sufficiente, ai fini dell’interesse alla estrazione degli atti, relativamente a cartelle esattoriali e relative relate di notifica per i quali si chieda l’accesso, il mero deposito in semplice copia degli estratti di ruolo, agli atti del fascicolo di causa, perché vanno esibiti gli atti in copia integrale e conforme all’originale, allo scopo di consentire la piena conoscenza del loro contenuto”. 

Questi i principi ribaditi nella sentenza del TAR Campania, Sez. I del 9.2.2015, n. 308 con la quale il giudice partenopeo ha affermato che il silenzio di Equitalia - integrante implicito diniego dell’istanza di una società - è per definizione immotivato: già soltanto questo dato di fatto sarebbe sufficiente, in cospetto di una disciplina dell’accesso improntata, in linea generale, alla massima trasparenza nell’azione della P. A. ed al principio di leale collaborazione tra P. A. e privato, oltre che in presenza dell’obbligo di legge, di natura generale, di fornire adeguata motivazione ad ogni provvedimento amministrativo, a determinare l’accoglimento del ricorso, in assenza del richiamo da parte della resistente alla sussistenza, nella specie, di specifici divieti che osterebbero all’ostensione degli atti richiesti.

Infatti, in materia deve trovare applicazione l’indirizzo della giurisprudenza amministrativa, compendiato nella seguente massima: “Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento della attività amministrativa, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione. Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. 

In sostanza, l’interesse all’accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operata, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante”. 

Sotto tale profilo, precisa il TAR, non può negarsi che la società ricorrente vanti un interesse qualificato ed una certa legittimazione ad accedere alla documentazione negata, posta l’inconfigurabilità di esigenze di tutela di riservatezza ed essendo del tutto evidente la propria posizione differenziata e la titolarità di una posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale atteso che, per la giurisprudenza: “Il contribuente vanta un interesse concreto e attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva".

Quanto, poi, all’eccezione d’inammissibilità/infondatezza del ricorso, nella parte in cui lo stesso è volto a ottenere l’accesso, non solo alle relate di notifica delle cartelle specificate nell’istanza, ma anche alle stesse cartelle, il giudice per disattenderla, ha richiamato la seguente la massima, espressione di un indirizzo consolidato della giurisprudenza: “La previsione dell’art. 26, d. P. R. 29 settembre 1973 n. 602 comma 4, ai cui sensi “il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice e la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento e ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione”, , ma disciplina il rapporto giuridico corrente tra l’agente della riscossione e il debitore con specifico riferimento all’onere probatorio della pretesa di pagamento. Il che comporta che l’accesso ai ripetuti atti non può essere negato, avuto conto che è solo sulla scorta degli stessi che può essere comprovata, con onere a carico dell’agente di riscossione, l’idoneità del titolo esecutivo e non opposto nei termini di legge a sorreggere validamente le pretese di cui trattasi ovvero a sorreggere validamente dinieghi di rilascio di certificazioni di regolarità fiscale”.

Tanto implica che non può negarsi, in astratto, il diritto di parte ricorrente d’acquisire copia delle cartelle di pagamento: l’agente della riscossione avrà dunque l’obbligo di ricercarle nei propri archivi e di consentirne l’accesso alla ricorrente, salvo che lo stesso agente della riscossione non dichiari, fornendone prova certa, che per alcune, o tutte, di esse, non è più in possesso dell’originale o di eventuali copie, nel qual caso, evidentemente, non potrà seguire l’accesso, ma ciò non per il preteso ostacolo giuridico, rappresentato dalla prefata disposizione dell’art. 26 del d. P. R. 29 settembre 1973, n. 602, bensì in applicazione del principio generale espresso dal noto brocardo: “Ad impossibilia nemo tenetur”. 

Non ha pregio, in definitiva, l’assunto di Equitalia, secondo cui, terminato il periodo entro il quale la p. a. deve necessariamente custodire i documenti di propria competenza, la medesima sarebbe esonerata dal correlativo obbligo di esibizione degli stessi.

lunedì 16 febbraio 2015

DIPENDENTI IMPEGNATI DAVANTI A VIDEOTERMINALI: PAUSA OBBLIGATORIA MA ........

Il datore di lavoro può sostituire le pause obbligatorie dal videoterminale prescritte dalle norme sulla sicurezza sul lavoro con mansioni alternative senza uso del PC: la sentenza della Cassazione.




Il datore di lavoro può sostituire le pause dal videoterminale, obbligatorie per i dipendenti che trascorrono continuativamente tempo davanti al PC, con mansionidifferenti che non prevedano l’uso del computer: lo ha stabilito una sentenza della Cassazione, la numero 2679 dell’11 febbraio 2015, riferita al caso di una dipendente di Telecom Italia. 

Il punto è il rispetto delle normative sulla sicurezza sul lavoro, che prescrivono una pausa di un quarto d’ora ogni 120 minuti (due ore) passati davanti al PC.

L’azienda non aveva riconosciuto queste pause, perché di fatto la dipendente oltre alle mansioni che prevedevano la permanenza davanti al videoterminale, aveva anche compiti di back-office, di tipo amministrativo, che non richiedevano l’utilizzo del PC

La decisione di primo grado aveva dato torto all'azienda, statuendo un indennizzo di circa quattro mila euro. L'azienda ha deciso di presentare ricorso avverso la decisione del giudice di primo grado. 

La vicenda va inquadrata storicamente alla fine degli anni ’90 e, quindi, la norma di riferimento che disciplinava i lavori davanti al videoterminale era l’articolo 54 del Dlgs 626/1994, norma sostituita dall’articolo 175 del Dlgs, decreto legislativo n. 81/2008

Ebbene, la previdente normativa stabiliva che il lavoratore intento a svolgere la sua attività al PC per almeno quattro ore consecutive avesse diritto a un’interruzione «mediante pause ovvero cambiamento di attività». 

Le modalità dovevano essere stabilite dalla contrattazione collettiva o aziendale. In mancanza di accordi contrattuali, la norma prescriveva una pausa di 15 minuti ogni 120 trascorsi al videoterminale, come del resto prevede anche la nuova legge. 

Comunque sia, il punto fondamentale è l’esplicito riferimento alla possibilità di sostituire le pause con diverse mansioni, che rappresentassero un cambiamento di attività.

La Corte ha così deciso:
«Ha accertato che nella fattispecie non sussisteva la continuità dell’applicazione al videoterminale e che, peraltro, lo svolgimento, seppur in maniera minore, dell’attività amministrativa nella stessa giornata comportava un cambiamento di attività, idonea a integrare la prevista interruzione».
Risultato: la Corte di Cassazione ha dato ragione all’azienda. Il precedente è importante, perché sancisce appunto che una diversa mansione, che non preveda l’uso del PC, possa essere considerata alla stregua delle pause.

Normativa

L'evoluzione della normativa è sostanzialmente simile alla precedente. 
Anche il sopra richiamato articolo 175 della legge 81/2008 prevede per il lavoratore il diritto «ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di attività». 
Le modalità delle interruzioni devono essere stabilite dai contratti di lavoro e in caso contrario vale la pausa di 15 minuti ogni due ore davanti al PC. 
Va precisato che nei tempi di interruzione non sono compresi quelli di attesa della risposta da parte del sistema elettronico (considerati, a tutti gli effetti, tempo di lavoro) e che la pausa è considerata parte integrante dell’orario di lavoro.
Dott. Victor Di Maria

sabato 14 febbraio 2015

Sconti e servizi promozionali - Qualificazione ai fini IVA a cura del Dott. Victor Di Maria


Il trattamento ai fini IVA dei bonus corrisposti dal fornitore ai propri clienti deve essere effettuato distinguendo i bonus "qualitativi" dai bonus "quantitativi".
I bonus "qualitativi" rappresentano il corrispettivo di una prestazione di servizi resa dal cliente al fornitore, sulla base degli accordi contrattuali stipulati tra le parti: pertanto, sono assoggettati ad IVA ai sensi dell'art. 3 del DPR 633/72.
I bonus "quantitativi" possono essere "condizionati" (al raggiungimento di specifici target commerciali) oppure "incondizionati":
- i primi (bonus "condizionati") rappresentano per l'Amministrazione finanziaria una riduzione di prezzo originariamente praticato e possono generare una nota di variazione in diminuzione ai fini IVA ex art. 26 co. 2 del DPR 633/72 (cfr. ris. Agenzia delle Entrate n. 36/2008); per la Cassazione, invece, la concessione di questo tipo di premio non può essere qualificabile come il riconoscimento di uno sconto, per cui il diritto all'emissione della nota di variazione non dovrebbe sussistere (cfr. Cass. 8.10.2014 n. 21182);
- i secondi (bonus "incondizionati"), in quanto premi riconosciuti in percentuale sul fatturato o sui volumi di vendita, indipendentemente dal fatturato o dai volumi realizzati, dovrebbero considerarsi fuori del campo di applicazione dell'IVA ai sensi dell'art. 2 co. 3 lett. a) del DPR 633/72, essendo assimilati alle "cessioni di denaro" (cfr. R.M. n. 502713/74).
Dott. Victor Di Maria

venerdì 13 febbraio 2015

Reverse Charge .......una procedura complicata soprattutto per mancanza di chiarimenti Ministeriali a cura del Dott. Victor Di Maria



A decorrere dal 1° gennaio 2015, a seguito delle novità introdotte ad opera della Legge di Stabilità 2015 (Legge n. 190/2014), è stata introdotta la nuova lett. a-ter) al 6° comma dell’art. 17 del DPR n. 633/1972, prevedendo che il reverse charge c.d. interno (nel caso in cui il committente sia soggetto passivo IVA) torni applicabile anche con riferimento alle “prestazioni di servizi di pulizia, di demolizione, di installazione di impianti e di completamento relative ad edifici”.
CASI DI APPLICAZIONE
Ad oggi l’Amministrazione finanziaria non ha chiarito la portata della nuova disposizione normativa. Ciò premesso sembra ragionevole ritenere che il reverse charge in esame torni applicabile per determinate prestazioni, richiamate proprio all’interno della norma. Più nel dettaglio sembra che si debbano considerare le indicazioni contenute all’interno della Relazione Tecnica che fa riferimento alle categorie ATECO 81.2 (pulizie) e 43 (demolizioni, installazione di impianti, completamento).

Prestazioni relative ad edificiCasi in cui torna applicabile il reverse charge c.d. interno prendendo a riferimento quanto riportato all’interno della Relazione Tecnica alla Legge di Stabilità 2015
Prestazioni di servizi di pulizia relative ad edifici
Dovrebbero essere soggette a reverse charge (ancorché risulta opportuna/necessaria una conferma ministeriale) le seguenti prestazioni di pulizia:
  • pulizia di nuovi edifici dopo la costruzione;
  • pulizia a vapore, sabbiatura e attività simili per pareti esterne di edifici;
  • pulizia generale (non specializzata) di edifici;
  • altre attività di pulizia specializzata di edifici esclusa la pulizia di impianti e macchinari;
  • servizi di disinfestazione.
Prestazioni di servizi di demolizione relative ad edifici
In linea generale rientra nel reverse charge la demolizione di edifici; non rientra, invece, la demolizione di altre tipologie di strutture diverse dagli edifici come ad esempio gli impianti industriali.
Prestazioni di servizi di installazione di impianti relative ad edifici
Dovrebbero essere soggette a reverse charge (ancorché risulta opportuna/necessaria una conferma ministeriale) le seguenti prestazioni:
  • installazione di impianti elettrici in edifici o in altre opere di costruzione;
  • installazione di impianti elettronici;
  • installazione di impianti idraulici, di riscaldamento e di condizionamento dell’aria in edifici o in altre opere di costruzione;
  • installazione di impianti per la distribuzione del gas;
  • installazione di impianti di spegnimento antincendio;
  • installazione di impianti di depurazione per piscine ancorché risulta necessario un chiarimento al fine di stabilire se la piscina può rientrare nel concetto di edificio ovvero parte di esso;
  • installazione di impianti di irrigazione per giardini ancorché risulta necessario un chiarimento al fine di stabilire se il giardino può rientrare nel concetto di edificio ovvero parte di esso;
  • installazione, riparazione e manutenzione di ascensori e scale mobili;
  • lavori di isolamento termico, acustico o antivibrazioni;
  • altri lavori di costruzione e installazione.
NB: ad oggi non è chiaro se rientrano nel reverse charge anche i servizi di manutenzione nonché riparazione delle citate installazioni. Si pensi ad esempio alla manutenzione di una caldaia.
Caso: cessione con posa in opera
Capita sovente che l’installazione di impianti relativi ad edifici venga effettuata mediante la cessione di beni con posa in opera. Si pensi ad esempio alla cessione della caldaia con la successiva posa in opera della stessa. In tal caso, se l’importo della caldaia (bene) è superiore al valore della prestazione (per meglio dire, dare superiore al fare) sembra che il reverse charge interno (se la cessione con posa in opera è svolta a favore di un soggetto passivo IVA) non torni applicabile, in considerazione del fatto che la prestazione di servizi è accessoria alla cessione di beni (ai sensi dell’art. 12 del DPR n. 633/1972).
Servizi di completamento relativi ad edifici
Dovrebbero essere soggette a reverse charge (ancorché risulta opportuna/necessaria una conferma ministeriale) le seguenti prestazioni:
  • intonacatura e stuccatura;
  • posa in opera di casseforti, forzieri, porte blindate;
  • posa in opera di infissi, arredi, controsoffitti, pareti mobili e simili;
  • rivestimento di pavimento e di muri;
  • tinteggiatura e posa in opera di vetri;
  • attività non specializzate di lavori edili – muratori;
  • altri lavori di completamento e di finitura degli edifici.
NB: l’Agenzia delle Entrate dovrà chiarire se il reverse charge torni applicabile solo per il completamento ovvero la costruzione degli edifici oppure sia esteso anche per i servizi di manutenzione/ristrutturazione.